Volgi gli occhi alla Luna
, così come la sua matrice Webberiana, si scosta dalla grande tradizione operistica che affonda le radici nella  rappresentazione del melodramma, in chiave lirica o moderna, ma attinge a piene mani dallo sviluppo letterario di fine Ottocento / inizio Novecento, dove la crisi dell’Io e la perdita della fiducia nella ragione umana porta sempre di più all’allontanamento dal carattere psicologico dei personaggi, la cui razionalità interiore diventa pressoché impossibile da capire, e consapevoli di questo, si concentrano tutte le forze sull’esteriorità degli individui, componente del dualismo umano finora poco considerata. Il periodo letterario in cui calare “Volgi gli occhi alla luna”è proprio quello di un’attenzione all’estetica e alla ricerca della bellezza sensoriale che si tramuta nell’eccesso di una perversione raggiunta nel panorama letterario dal Dorian Gray di Oscar Wild piuttosto che Andrea Sperelli di Gabriele D’Annunzio.

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Lo spettacolo è quindi pensato e costruito per soddisfare un bisogno e una ricerca di bellezza in termini novecenteschi, dove questa è determinata soltanto dalla sensibilità; i sensi diventano unico strumento per conoscere  la realtà intorno a noi, e l’espressione artistica deve soddisfare questo bisogno di “bellezza estetica” e, in tempi successivi, arriverà ad estremizzare questa ricerca di bellezza, sfociando nella deformazione della realtà e nell’eccessiva “divinizzazione” delle percezioni, dando vita a movimenti artistici come Espressionismo, Cubismo ed Astrattismo.

Collochiamo questo spettacolo prima della fase di degenerazione della realtà sensibile, quando non avendo mezzi per capire l’interiorità di un individuo, l’arte non può fare altro che descrivere ed utilizzare ciò che di concreto può percepire con i sensi. E’ per questo motivo che “Volgi gli occhi alla Luna” è caratterizzato da una trama semplicissima e banale, il raduno di un gruppo di gatti che a turno si presenta, l’arrivo del loro leader Deuteronomio, e le apparizioni di Grisabella, una vecchia gatta di cui il gruppo aveva perso memoria e che ora guarda con diffidenza e disprezzo, e Macavity, gatto malvagio, che rapisce Deuteronomio al solo scopo di gettare sconforto tra i gatti. Alla situazione porrà rimedio il magico Mr Mistoffelees, che molto banalmente, con una magia farà ricomparire l’anziano leader. Macavity è cattivo, e la sua cattiveria è determinata dalla cattiveria stessa. Non sappiamo chi sia, da dove venga, qual è il suo passato, cosa ha fatto..non sappiamo nulla di questo, solo che è il cattivo della storia. Ma è una storia diversa da come siamo abituati a vederla; non c’è morale, non c’è una giustizia finale che punirà Macavity per la sua cattiveria, perché nessuno in ambito fine ottocentesco ha la capacità di giudicare ciò che è bene e ciò che è male. C’è una totale sfiducia nella razionalità, sfiducia che porta alla caduta degli ideali classici, dove siamo abituati ad un’evoluzone psicologica dei personaggi, che si formano attraverso il superamento delle prove che le vicissitudini gli pongono. Crolla la sicurezza e la determinazione, non si va più a teatro per conoscere qualcosa, per capire, ma unicamente per emozionarsi. Ma è un’emozione che non scaturisce dal contenuto, ma dalla pura estetica.

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I personaggi sono statici, non evolvono, sono quelli che si presentano, ognuno con il suo compito, ognuno con il suo ruolo, come in un utopistico mondo dove ogni cosa funziona non perché regolata da uno spirito (divino o razionale), che già Hegel, un filosofo di metà ‘800, dichiarava essere base del processo di sviluppo dell’individuo e della società, ma senza alcuna fondamenta. Tutto funziona in un contesto caratterizzato da casualità, dove i significati delle cose sfuggono dietro un’apoteosi di luci, suoni e colori che catturano i sensi, disattivando la razionalità del pubblico. Sconfina quasi nel Kitsch e nelle sue declinazioni, essendo questo un puro compiacimento della palese irrealtà; il pubblico infatti non si scandalizza di fronte allo spettacolo, come avrebbe fatto il pubblico ottocentesco (e anche dell’inizio ‘900) dove il giudizio di gusto era mediato da standard ben precisi che influenzavano, spesso inconsapevolmente, il fruitore. Il pubblico di fronte al teatro prima di questa evoluzione, se non per rare e trascurabili eccezioni, si è sempre posto in atteggiamenti riassumibili in due punti: coinvolgimento emotivo per la trama e le vicende (lo spettatore trasferisce il proprio io nel personaggio e si chiede cosa farebbe al suo posto, caricandosi sulle proprie spalle le pene e i turbamenti del personaggio; si tratta di una forma di empatia, spesso inconsapevole perchè automatica, che ci permette di emozionarci per esempio di fronte al melodramma, lasciando in noi un profondo turbamento) oppure, tipico degli spettacoli di stampo politico, una provocazione o uno spunto di riflessione che, radicato nello spettatore, comporta una serie di riflessioni personali a posteriori. Ecco però che il profondo valore di questa concezione teatrale sta proprio nella posteriorità, una fruizione teatrale che arricchisce lo spettatore per contenuti ed emozioni. Quando parliamo di Cats, invece, facciamo riferimento a tutt’altro contesto culturale, in cui in primo luogo le avanguardie, e successivamente la loro assimilazione culturale, causa un profondo mutamento nel pubblico e negli autori, che abbandonano gli schemi e le regole “tradizionali” per dedicarsi a generi completamente nuovi, con modalità comunicative e fruizionali completamente diverse. Il Kitsch, come dicevamo prima, entra sempre di più nelle opere e nelle rappresentazioni, coinvolgendo tutti gli ambiti della cultura, dalla letteratura all’arte, al teatro. Questo, seppure possiamo notarne elementi già in epoche passate, acquisisce ora un vero e proprio statuto artistico ed è possibile definirlo: essenza del Kitsch è infatti l’inautenticità accomodante, quella cioè che ci appare come palesemente inautentica, ma di fronte a questa proviamo un profondo senso di benessere; sappiamo che è inautentico, ma vogliamo ardentemente crederlo come autentico, perchè proprio nella sua inautenticità stiamo bene. E’ il caso delle architetture pseudo-storiche (dove stili diversi sono mischiati insieme per pura esaltazione, o addirittura le ricostruzioni tipiche dei parchi divertimento) , delle fiction televisive (dove la trama è dichiarata in modo ostinato, e fin da subito sappiamo chi è il personaggio cattivo e chi è quello buono etc., ma facciamo finta di nulla, mettiamo a tacere la razionalità e ci emozioniamo. Emblematico è il caso dell’ “ultima puntata”,  quando il personaggio buono si rivela essere cattivo, e noi ci sorprendiamo seppure ogni elemento a partire dall’inquadratura e dalla musica, già ce lo diceva dalla prima puntata), delle apparizioni pubbliche dei politici, delle pop-star che parlano della pace nel mondo, delle frasi di circostanza a matrimoni e cresime, dei souvenir turistici etc… .

La comunicazione del teatro cambia radicalmente da un giudizio a posteriori verso un nuovo valore, quello dell Hic et Nunc (qui ed ora). Infatti, tornando ad occuparci più direttamente di “Volgi gli occhi alla Luna“, ogni elemento è connotato unicamente da questo valore, che risulta profondamente comunicativo e coinvolgente, ma che si scontra con la tradizione e il passato; protagonista dello spettacolo è la scena, che acquisisce valore nel suo complesso, non nella sua peculiarità. Luci, trucchi, costumi, musiche, voci, coreografie, sono tutti elementi imprescindibili, perchè non hanno in questo spettacolo valore autonomo, ma concorrono tutte a creare questo effetto nel qui ed ora, dove è chiamato in causa nello spettatore unicamente il gusto estetico. Questa chiave di lettura permette di comprendere pienamente “Volgi gli occhi alla Luna” e di lasciarsi conquistare da questo spettacolo. Ogni tentativo di “comprendere” la scena in termini “tradizionali”, muovendo la propria razionalità, è soltanto un tentativo vano che impedisce la fruizione completa; la razionalità qui è un’enorme ostacolo che limita l’occhio e l’orecchio del pubblico, che cercando un significato inesistente, non coglie la vera essenza dello spettacolo. E’ infatti fondamentale che ci sia un profondo patto di fiducia con lo spettatore, cioè che lo spettatore si lasci ingannare profondamente, senza ritegno e senza pudore, di fronte al Kitsch.

Il personaggio che si scosta da questo quadro è però Gus, il gatto del teatro, che fa il suo ingresso agli esordi del secondo atto. Egli è anziano, ma in gioventù fu un attore, e nostalgicamente ricorderà quei tempi. Mentre tutti gli altri gatti si presenteranno e parleranno di quello che sono, lui è l’unico che dovrà usare il passato, parlando di quello che è stato; in un mondo dominato dalla realtà sensibile non c’è spazio per la memoria, in quanto solo ciò di cui si ha esperienza attraverso i sensi può essere preso in considerazione. Questa è la volontà dell’autore di inserire in un contesto ben preciso, quasi utopistico, dove padroneggia il presente (hic et nunc sopra trattato), una nota distorta che recita al passato. Gus, abbreviativo di Asparagus, non condivide il presente, e avrà modo di manifestare la sua diversità: si perde nelle memorie, e riprende a recitare, impersonando Gattigre, il gatto pirata e,sottolineando ancora una volta come non è nel presente che egli affonda le sue radici come gli altri, bensì nel passato, propone una scenda di “teatro nel teatro” sull’esempio dei grandi come Shakespeare, Goldoni e Pirandello, emblemi di un’epoca teatrale ritenuta qui ormai superata. Sarà infatti dopo la rappresentazione che Gus, con una vena di malinconia, converrà che per lui è il momento di eclissarsi, e accompagnato dagli altri gatti, entrerà a far parte di un presente caratterizzato da puro estetismo.

Dal punto di vista musicale, c’è un profondo connubio con quanto detto sopra. In primo luogo è necessario sottolineare, come fa Luca Zoppelli in un egregio saggio dal titolo “l’Opera come racconto”, il profondo valore che la musica ha nel contesto del teatro musicale. Non si limita infatti, a partire dalla “maturità ottocentesca” ad essere un mero accompagnamento alle voci e alle vicende, ma acquisisce uno statuto narrativo, diventando “voce dell’autore” (in riferimento preciso al Melodramma), o comunque entrando in stretto contatto con la scena. Non è mai nel teatro musicale svilcolata da ciò che succede, non si limita ad essere veicolo delle parole dei personaggi, ma permette una penetrazione psicologica, che al pari della scenografia, ambienta e racconta la vicenda. Mi limito in questo contesto a questa semplice e superficiale definizione, ma che rende l’idea di come la musica non sia un mezzo “passivo” della fruizione, ma svolge un importantissimo ruolo attivo. In “Volgi gli occhi alla Luna” gran parte del materiale musicale è stato rivisto, modificato e ri-arrangiato da me e Roberto Cioffi per insistere ancora di più, rispetto agli arrangiamenti originali di Webber, su questo valore di hic et nunc fondamentale per rendere peculiare la nostra versione. La musica quindi è stata pensata come strumento per trasmettere l’idea di fondo dello spettacolo, basato su scena e “spettacolarizzazione”, in accordo con quell’idea espressa sopra. La musica in “Volgi gli occhi alla Luna” deve colpire, coinvolgendo lo spettatore non per il contenuto ma per la forma. Così, grazie ai supporti tecnici, è stato possibile costruire brani con continui cambi di tonalità, tempi che cambiano in progressivi rallentando e diminuendo (volti non all’enfatizzazione melodrammatica, bensì appunto all’esaltazione di se stessi in quanto tali), attacchi improvvisi, creando ovviamente non poche difficoltà ai cantanti e al corpo di Ballo.

Difficoltà anche in campo tecnico, sia a livello audio in quanto si è reso necessario far lavorare i cantanti con monitor in-ear per ragioni logistiche, che a livello luci; queste infatti sono anch’esse, come detto prima, parte integrante dello spettacolo e componente fondamentale, come fondamentale è quindi il loro dialogo con lo spettacolo. Con i mezzi a nostra disposizione è stata un’enorme sfida non tanto l’utilizzo della luce in sé, ma la sua relazione con la scena che non deve essere soltanto di “forma” ma deve permeare profondamente la scena.

Cassani Matteo (regia)

ultima revisione: Maggio 2017