di Matteo Cassani

 

 

 

 

 

Per anni considerata la maschera funeraria del “gloriosissimo figlio di Atreo” (Iliade XIX, 146), è in realtà appartenuta a qualche sovrano miceneo di almeno tre secoli più vecchio.

 

Maschera di Agamennone, Museo Nazionale di Atene

Agamennone, il celeberrimo “gloriosissimo figlio di Atreo (Iliade XIX, 146), è indubbiamente una delle figure omeriche più conosciute. Il “re dei regi”, secondo la leggenda, è alla guida dell’esercito acheo nella più grande guerra della mitologia classica: la guerra di Troia.

 

Gli antefatti: La Guerra di Troia. 

Paride, considerato il più bello tra gli uomini di tutta la Grecia, viene chiamato da Zeus per arbitrare la contesa del pomo della discordia; esso infatti è destinato “alla più bella” tra le dee, e a reclamarlo per sé sono Era, Atena ed Afrodite. Paride sceglie Afrodite, che in cambio gli regala l’amore della donna più bella di tutta la Grecia. Tale donna è Elena, sposa di Menelao, re di Sparta. Così, in un viaggio diplomatico nella città laconica, Paride ed Elena si incontrano, e la donna scappa con l’amante rifugiandosi proprio a Troia.

Menelao, infuocato dall’ira, chiede aiuto al fratello Agamennone, che raduna il più grande esercito mai armato, e guida l’assedio alla città di Priamo. 

Dieci anni durerà la guerra secondo Omero, dieci anni che faranno dei personaggi che la vivono degli eroi indimenticabili della mitologia, e faranno di Agamennone il più grande tra i capi dell’esercito acheo.

 

Alla ricerca dei resti archeologici. 

Rovine di Troia

Per anni l’archeologia mondiale si è messa alla ricerca di prove che confermassero l’effettiva esistenza di tale città e delle vicende leggendarie ad essa collegate. Sforzi che vedranno vittorioso Heinrich Schliemann (1822 – 1890), che tra il 1870 e il 1873 porta alla luce i resti di una città distrutta, nell’attuale Turchia, affacciata sullo stretto dei Dardanelli, proprio dove Omero raccontava sorgesse. L’archeologo porta alla luce la città di Troia, creduta fino ad allora solo frutto della fantasia. I resti confermano inoltre la presenza di una grande guerra, databile anche sulla base di testimonianze trasversali, intorno al 1200 a.C. : la guerra di Troia è storia.

 

Forte del grande successo, sposta la sua attenzione all’antica Laconia, scavando i resti di Micene, la città di Agamennone. Qui nel 1876 porta alla luce un complesso tombale, chiamato “circolo A”. La ricchezza delle tombe, la quantità di oro e gioielli, subito fa pensare a defunti di sangue blu, molti dei quali hanno il volto coperto da maschere; ed è in particolare una di queste che attira l’attenzione di Schliemann: quella che lui stesso definisce fin da subito la “maschera di Agamennone”.

Il defunto è per il celebre archeologo proprio il “re dei re”, il prode figlio di Atreo, che tornato dalla guerra vittorioso, ha trovato sepoltura nella sua città.

Per Schliemann è il coronamento di una carriera straordinaria.

 

La datazione del Novecento. 

Oggetto di studio nel secolo successivo, la maschera di Agamennone ha iniziato ad essere al centro di molti dibattiti;  Schliemann oltre che un brillante archeologo, era anche scaltro e privo di scrupoli, caratteristiche che hanno portato molti a dubitare della frettolosa identificazione del 1876. Infatti proprio dalla datazione arriva la smentita: la maschera funeraria risale all’incirca al XVI secolo a.C., inconciliabile quindi con il regno del grande sovrano; se è vero, come racconta Omero, che egli guida gli eserciti achei nel 1200 a.C. durante la guerra di Troia, la sua sepoltura non può aver avuto luogo nel XVI secolo, tre secoli prima.

Indubbiamente l’oggetto appartiene al corredo funebre di qualche sovrano miceneo, ma la forzata identificazione di Schliemann si è rivelata essere frutto della fantasia dell’archeologo. Che ne fosse consapevole o meno, non ci è dato saperlo.

 

Le teorie di Calder e Traill. 

Siamo nel 1999, e due studiosi americani, William Calder e David Traill, tornano a puntare l’indice contro Schliemann,

accusandolo di aver architettato il grande bluff per chiudere la carriera “con il botto”. Ma le teorie dei d

Heinrich Schliemann

ue si spingono ben oltre, sostenendo che la stessa maschera sia un falso, costruito ad hoc. In primo luogo l’attenzione dei due si concentra sui baffi, ritenuti “fuori moda” in epoca Micenea, e in particolare con quello specifico arricciamento verso l’alto, tipici invece della moda Ottocentesca, quando ritengono sia stato concepito il falso manufatto.

In secondo luogo, confrontando la maschera con le altre ritrovate nel complesso tombale, i due notano come la raffinatezza del reperto non sia comparabile agli altri; ergo, non appartiene al complesso. A loro favore testimonia l’allontanamento improvviso da Micene di Schliemann nei giorni precedenti al ritrovamento, tempo in cui, secondo i due studiosi, l’archeologo avrebbe commissionato il falso reperto.

 

Conclusioni

Per quanto ben strutturate, difficile pensare che un archeologo di fama mondiale come Schliemann, per quanto privo di scrupoli, abbia potuto architettare un piano come questo; perché mettere a repentaglio l’intera sua carriera, peraltro già disseminata di importanti riconoscimenti?

Per questo, e per il peso che la datazione ha nelle valutazioni storiche, la maggior parte degli studiosi oggi ritiene che la maschera non sia un falso: è sicuramente una maschera funeraria micenea, appartenuta a qualche sovrano della città. Ma altrettanto sicuramente tale sovrano non è identificabile con l’atride Agamennone.