di Matteo Cassani

 

 

 

 

 

 

Il 12 Dicembre 1969 Milano viene stravolta da un’esplosione che distrugge la Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana, portandosi con sé 17 morti e 87 feriti. Molte sono le ipotesi, molte le inchieste e molte le teorie che sono nate nel corso degli anni intorno a questa strage, rimasta impunita ancora oggi, e da molti definita il momento più buio della giustizia italiana.

L’inchiesta ufficiale, senza indicare alcun esecutore materiale, afferma che fu realizzata da “cellule eversive di Ordine Nuovo”, e la Commissione Stragi, suffragata da personaggi del calibro di Bettino Craxi, Francesco Cossiga e Paolo Taviani, conclude che fu opera di una collaborazione tra anarchici, fascisti, e sezioni deviate dei servizi segreti.

Ciò che è sicuro sono gli effetti che questa strage, prima di una lunga serie, avranno sulla politica e sulla società italiana: iniziano gli “anni di piombo”, che portano l’Italia e l’Europa verso un progressivo allontanamento dalle posizioni idealiste e sovversive dei movimenti filo-comunisti, affidando allo Stato, almeno nelle previsioni, un potere esecutivo sempre più forte. E non è così difficile pensare, in tutta onestà, ad una regia sovranazionale mai accertata processualmente, ma che molto ha influenzato la politica italiana ed europea in quei lunghi decenni. Aldo Moro nel suo Memoriale scriveva:

“[…] è mia convinzione però, anche se non posso portare il suffragio di alcuna prova, che l’interesse e l’intervento fossero più esteri che nazionali. Il che naturalmente non vuol dire che gli italiani non possono essere implicati”

Seguire il filone delle teorie ci porterebbe a scrivere pagine su pagine, come è già stato fatto da molti, finendo in un corto circuito che ci farebbe dubitare di tutto e di tutti. Ci limitiamo perciò, in questo articolo, a riportare i fatti, lasciando commenti e contestualizzazioni ai posteri, quando interessi e coinvolgimenti diretti saranno solo un ricordo e potrà essere letta con serenità e oggettività questa pagina della storia contemporanea per noi ancora troppo vicina per essere compresa nella sua interezza.

 

I fatti

16:37, Milano – Un’enorme esplosione irrompe nella quotidianità milanese; la Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, proprio dietro il Duomo, è distrutta da un ordigno.

16:55, Roma – Una bomba detona l’ingresso della Banca Nazionale del Lavoro

17:20, Roma – Un secondo ordigno semina il panico all’Altare della Patria.

17:30, Roma – Un terzo ordigno, nella capitale, esplode in Piazza Venezia, all’ingresso del Museo centrale del Risorgimento.

I feriti a Roma furono in totale 16, fortunatamente nessuno perse la vita. Decisamente più sanguinoso il bilancio milanese: 13 persone muoiono sul colpo, 4 a seguito delle ferite riportate. Rimangono ferite 87 persone.

 

Dopo i primi soccorsi, seguono le prime indagini. Libero Mazza, prefetto di Milano, scrive all’allora Presidente del Consiglio Mariano Rumor per il primo resoconto “l’ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza le indagini verso gruppi anarcoidi”.  La segnalazione arriva da una fonte autorevole e affidabile: Federico Umberto D’Amato, direttore dell’Ufficio affari riservati del Viminale. Ma è un depistaggio, il primo di una lunga serie.

Giuseppe Pinelli, membro del Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa viene arrestato e portato in questura. Dopo 3 giorni di interrogatorio, muore precipitando dal quarto piano. Suicidato gridando “è la fine dell’Anarchia” secondo le testimonianze dei presenti. Precipitato a causa di un malore secondo l’inchiesta ufficiale. L’autopsia è coperta da Segreto di Stato.

Pietro Valpreda, appartenente al Circolo Anarchico 22 marzo, nel pomeriggio del 12 Dicembre prende un taxi, portando con sé una grossa e pesante valigia. Ma Valpreda è claudicante, mentre l’uomo della testimonianza cammina normalmente. Prende sempre più piede l’ipotesi di un sosia: Antonio Sottosanti, detto “Nino il fascista”. Molti indagati avevano infatti parlato di un militante di estrema destra che era stato impiegato per il trasporto della valigia con la bomba sul taxi al fine di far ricadere la colpa e la responsabilità della strage sui gruppi anarchici. Sottosanti ha sempre negato con forza ogni coinvolgimento, ma nel 2000, rilasciando un’intervista al Corriere della Sera, sottolinea di essere a conoscenza di alcuni retroscena della strage:

SOTTOSANTI: “ci sono troppe cose che non posso dire. […] in quei giorni io sentii fare dei discorsi gravi, che ho compreso solo dopo aver letto gli atti di Piazza Fontana. […] Di certi fatti io fui testimone oculare.”

GIORNALISTA: “E allora perché non parla? Di fronte ad una strage impunita, non si sente in dovere di aiutare la giustizia?”

SOTTOSANTI: “In nome di cosa? Per questa Italia di oggi? No, guardi.. i miei segreti io me li porterò nella tomba!”

Antonio Sottosanti muore nel 2004, portandosi effettivamente con sé ciò che sapeva.

 

I processi

Da Roma, il 23 febbraio 1972, viene subito rinviato a Milano per incompetenza territoriale, e spostato poi a Catanzaro per motivi di ordine pubblico e legittimo sospetto. Dopo due anni, spuntano i nomi degli ipotetici mandanti: l’attentato in Piazza Fontana è stato commissionato da un gruppo eversivo legato ad Ordine Nuovo, un gruppo di estrema destra, capitanato da Franco Freda  e Giovanni Ventura. I due vengono condannati all’ergastolo come organizzatori della strage.

Ma, come spesso accade in Italia, la sentenza viene impugnata e si torna in aula; la Corte d’appello ribalta la condanna: insufficienza di prove. Tutti assolti.

Dopo che la Cassazione ordina un nuovo processo, il 1 agosto 1985 la Corte d’appello di Bari conferma l’assoluzione per insufficienza di prove. Ma appare evidente che le indagini, soprattutto nei primi anni, sono state depistate verso la “causa anarchica”, distogliendo l’attenzione dalla pista neofascista. Vengono per questo condannati il generale Gaetano Maletti e il capitano Antonio Labruna, dei servizi segreti italiani.

Una strage, nessun colpevole; la vicenda di Piazza Fontana sembrava essere destinata ad abbandonare le cronache giudiziarie e a finire nei libri di storia, se non fosse arrivata da tutt’altra vicenda, una testimonianza che inchioderebbe Freda e Ventura. E la testimonianza compare tra le righe di un altro dei capitoli più bui della storia italiana contemporanea.

È, infatti, la notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 quando alcuni dirigenti militari e funzionari ministeriali, armati e sostenuti da settori deviati dei servizi segreti, occupano militarmente il Ministero dell’Interno, il Ministero della Difesa, la sede della Rai, e si accingono a rapire il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. È il golpe Borghese, un tentato colpo di Stato che rimarrà tale: ad attuazione avanzata, è l’ideatore stesso del golpe, il principe nero Junio Valerio Borghese, ad ordinarne l’immediato annullamento. A 50 anni di distanza, ancora le motivazioni che lo hanno spinto a ritrattare sono un mistero.

Il processo che ne segue vede imputati come cospiratori anche alcuni ex membri di Ordine Nuovo, i quali ribadiscono il

ruolo del movimento nell’organizzazione degli attentati precedenti, confermando la responsabilità di Freda e Ventura, e indicano Delfo Zorzi come colui che ha piazzato personalmente la bomba in Piazza Fontana.

Il 24 febbraio 2001 a Milano inizia un nuovo processo, che porterà alla condanna di Zorzi, nel frattempo scappato in Giappone dove ottenne la cittadinanza e la conseguente immunità all’estradizione. Gli organizzatori, Freda e Ventura, riconosciuti colpevoli, non erano più processabili in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987. Nel maggio del 2005, per ironia della sorte, i parenti delle vittime furono costretti a pagare le spese processuali.

 

La Controinchiesta delle BR

Il 15 Ottobre 1974 i Carabinieri fanno irruzione nel covo delle Brigate Rosse a Robbiano di Mediglia (MI). Qui vennero scoperti i verbali di un’inchiesta condotta proprio dalle BR sulla strage di Piazza Fontana e su molte altre.

Sul tavolo della Commissione Stragi arrivano però meno della metà dei documenti ritrovati; molti di questi vengono persi nei trasferimenti tra procure e tribunali nel 1980, e una parte verrà distrutta erroneamente nel 1992 perché ritenuta non significativa.

L’inchiesta verrà ricostruita sulla base delle dichiarazioni dei brigatisti rilasciate nel corso di lunghi decenni di interrogatori. Dalla versione ufficiale delle Brigate Rosse si evince che l’attentato in Piazza Fontana è stato materialmente organizzato dagli anarchici, come atto dimostrativo. L’ordigno sarebbe stato loro fornito da gruppi di estrema destra.

La strage, secondo le BR, è frutto di un errore di valutazione: la banca sarebbe dovuta chiudere  al pubblico alle 16:30, ma l’enorme affluenza agli sportelli quel giorno ha fatto sì che al momento dell’esplosione, all’interno ci fossero numerosi visitatori. La Controinchiesta sottolineava anche come Pinelli, resosi conto della strage inconsapevolmente attuata, si suicidò dalla finestra della questura per rimorso.

 

Il documento KSD/VI M numero 0281

Le sorprese riguardanti gli imputati non sono finite; nel 1971 infatti gli inquirenti entrano in possesso di un documento, identificato come KSD/VI M e riportante numero progressivo 0281, contenente alcune informazioni riservate in possesso del SID (Servizio Informazioni Difesa) nato nel 1966 per svolgere funzioni di servizio segreto italiano.  Ciò che lascia increduli è il luogo di rinvenimento: infatti tale documento si trovava nella Banca Popolare di Montebelluna, in una cassetta di sicurezza intestata proprio a Giovanni Ventura.

Questo, chiamato a dare spiegazioni dai giudici, affermerà di conservare tale documento per conto di Guido Giannetti, l’Agente Zeta del SID, nella cui casa, dopo una perquisizione, vengono ritrovati altri documenti sensibili. In un primo momento nessuna risposta arriva ai giudici dal Servizio Segreto, nonostante le numerose sollecitazioni; solo nel 1973 il generale Miceli affermerà in proposito che le “notizie sono da considerarsi segreto militare e non possono essere rese note”. L’implicita conferma dell’appartenenza ad SID di Giannetti è ulteriormente confermata l’anno successivo dall’allora Ministro della Difesa, Giulio Andreotti.

Nel 1979 l’Agente Zeta viene arrestato e condannato all’ergastolo, per essere poi assolto due anni dopo per insufficienza di prove.