di Davide Chiodini

 

 

 

 

 

La chiusura a cui ha costretto la pandemia, col passare del tempo, si fa sempre più insostenibile. Relazioni che vacillano, nuovi rapporti che non sono destinati ad iniziare per via del blocco imposto per motivi di pubblica sicurezza.

Le persone sono chiuse in casa per la maggior parte del tempo, con sporadiche uscite per motivi di necessità, oltre che per il lavoro. Il trascorre delle giornate, a partire da dall’anno precedente, ha reso “normale” e quasi accettabile il distanziamento, la chiusura, la paura del contagio o l’insensatezza di certi comportamenti.

L’azione è stata messa a dura prova, i movimenti, soprattutto all’inizio, negati. Gli individui hanno cercato, dopo lo spavento e il blocco iniziale, di ridestarsi e, oltre alle manifestazioni spontanee sui balconi, si sono impegnati a mantenersi attivi, con esercizi fisici o semplici passeggiate in compagnia di altre persone o con l’amico a quattro zampe.

Lo spazio di casa, in alcuni casi anche piuttosto angusto, soprattutto se condiviso da una famiglia abbastanza numerosa, è diventato la nuova scena, testimone di piccoli e grandi eventi quotidiani, portati all’esterno solo virtualmente, tramite le videochiamate con amici e parenti.

Le piazze si sono svuotate, i bar con l’asporto hanno raccolto avventori in modalità “take away” e i tradizionali luoghi deputati al ritrovo e alla socialità sono stati depauperati della loro valenza aggregante. Si sono imposti prepotentemente i social, grazie ai quali è stato possibile aprire una finestra sul mondo di casa e di vivere virtualmente eventi che in presenza erano negati. Tutto ciò però (perdura ancora in questo momento in cui le parole scorrono sul foglio e vengono a formare un articolo che vuole essere una riflessione appassionata della situazione contingente) non ha fatto altro che alimentare un senso di smarrimento, vuoto e depressione, non facilmente individuabili in ogni soggetto, ma non per questo meno presenti. Purtroppo in un anno di Covid ad essere al centro delle discussioni e dei dibattiti è stato solo il fisico, per il rischio di contrarre il virus, con evidenti complicazioni del quadro clinico per i soggetti più fragili e successivamente l’accento si è spostato sulla possibilità di produrre un vaccino, lungamente attesa, la quale si è concretizzata da poco con la campagna vaccinale. Al contrario poco si è parlato dell’impatto psicologico, come se sia da attenzionare solo ciò che è visibile. Invece molta sofferenza non è dovuta solo alle affezioni polmonari o alla permanenza nelle terapie intensive, ma anche per il senso di impotenza di fronte ad un nemico invisibile e tanto potente da stravolgere le abitudini collaudate a cui si era avvezzi.

In questo quadro che sembra da film catastrofico e apocalittico si sente la mancanza di una realtà viva e vibrante: il teatro.

Teatri fermi, chiusi, niente pubblico in coda davanti alla biglietteria e in attesa di poter varcare la porta d’ingresso, per poi sistemarsi al posto assegnato e aspettare, in trepidante attesa, che la scena si animi, prenda vita e che i corpi degli attori diano forma ed espressione ai sentimenti, alle passioni umane. Come nel passato, quando il teatro era un formidabile “ammortizzatore sociale”, nel senso che riusciva, attraverso la rappresentazione della vita sulla scena, a far rivivere drammi e passioni, non solo appassionando, ma altresì purificando gli spettatori, mediante quella catarsi rigenerante. Sopite le passioni, esternate e proiettate sulla scena, non venivano consumate all’interno delle mura di casa e per questo motivo al teatro si poteva riconoscere anche una funzione di mantenimento di un certo modus vivendi, ordine sociale.

Attualmente più che mai si sente la mancanza di poter vivere la scena, come ad essere lì sul palco assieme agli attori, accompagnandoli nella performance dall’inizio alla fine, sentendosi parte della rappresentazione. I teatri non sono considerati sicuri, troppo alto il rischio di assembramento, come per i cinema, altri grandi esclusi dalla riapertura e mentre gli attori e tutti gli operatori dello spettacolo languono e non si sentono per nulla “ristorati”, la scena è vuota, il pubblico assente, le poltroncine testimoni loro malgrado dell’inesorabile silenzio da cui il teatro non riesce ad uscire, nonostante le manifestazioni per la Giornata Mondiale del Teatro che ne hanno riportato l’attenzione.

Durante la Prima Guerra Mondiale i poeti si sentivano smarriti di fronte agli orrori e alle atrocità di cui erano testimoni, tanto che avvertivano di aver perso l’ispirazione, di non saper più esprimere i propri sentimenti, al punto da rivendicare, come fosse un loro diritto: “non chiedeteci la parola”.

A distanza di un secolo invece urge più che mai richiedere la parola, viva, che solo dalla scena si eleva per interrogare le coscienze, risvegliarle (oggi ce n’è tanto bisogno), mantenendo l’imprescindibile rapporto con il reale. Ridateci la parola!