di Matteo Cassani

 

 

 

Attila, König der Hunnen, tragedia di Z. Werner del 1809, è il punto di partenza per un giovanissimo Giuseppe Verdi e per Temistocle Solera, che porterà alla creazione di una delle opere che più  avrebbero infervorato gli animi dell‘Italia risorgimentale. La composizione inizia nel 1845, ma ben presto i rapporti tra compositore e librettista si fanno sempre più scottanti, e si interrompono definitivamente quando, stanco dei continui ritardi di quest’ultimo, Verdi si rivolgerà a Francesco Maria Piave, dando inizio ad un lunghissimo sodalizio. Sta di fatto che, per l’Attila, vedremo i primi due atti scritti da Solera, e il terzo da Piave. Pur essendo un’opera giovanile di Verdi, già si intravedono quelle caratteristiche drammaturgico musicali che caratterizzeranno la sua produzione “matura”: infatti il compositore si prende molta cura nella delineazione psicologica dei personaggi, e in particolare della figura di Odabella, emblema dell’eroina romantica. Infatti la sua doppia personalità, guerriera spavalda da un lato e fanciulla sensibile dall’altro, viene trattata con estrema attenzione, gettando già, in alcuni punti, le basi per lo “stravolgimento melodrammatico” che Verdi maturerà pienamente nelle produzioni successive: emblema di questo è la cavatina con la quale compare in scena Odabella, eccezionalmente sviluppata e vocalmente impegnativa, dietro la quale pare già di scorgere quella che sarà la vocalità di Lady Macbeth.  (“Allor che i forti corrono”

Inizia a scorgersi una sottile frammentazione, che nel corso dell’800 si farà sempre più consistente, e si deflagherà completamente nel ‘900 portando alla crisi dell’io. La staticità psicologica tipica del melodramma, soprattutto italiano, inizia ad incrinarsi in Verdi, lasciando spazio ad una penetrazione psicologica che vedrà il proprio compimento musicale nella produzione post-Macbeth, ma le cui radici già si scorgono in quest’opera. Lo stesso Attila è coinvolto in questa frammentazione accennata, diviso tra la sete barbarica di conquista e il timore per il soprannaturale (basti vedere la reazione al sogno nel I atto, o il confronto con papa Leone – “Parla, imponi! / Vieni, le menti visita!”). 
 Decisamente di carattere più convenzionale è la figura di Foresto, tipico eroe del primo romanticismo: languido, passivo e ben poco strabiliante.  

Altro elemento precoce, che sarà proprio di un Verdi più maturo, è la percezione musicale dello spazio; da sottolineare
che non si tratta di un elemento proprio del compositore, ma di un topos largamente utilizzato, pare però in questo 
contesto (siamo alla metà dell’800) precursore dei tempi. 
Siamo ovviamente ben lungi dalle descrizioni spaziali del Naturlang ( o naturlante) di Mahler o dall’8’ sinfonia di 
Dvorak, ma indubbiamente nella cavatina di Foresto, nel Prologo, ha tutta l’aria di essere pura musica descrittiva, della 
quale Verdi farà ampio uso (un esempio fra tutti, in Aida, la rievocazione del cielo etiope in “o patria mia”). Interessante è il riferimento che Claudio Toscani, eminente musicologo e curatore del libretto di sala per la Prima alla Scala dell’Attila nel 2018, fa in riferimento a questa cavatina, citando come fonte di probabile ispirazione l’ode sinfonica Le dèsert di Félicien David. 

Tale “esperimento”, in ambito storico-drammaturgico, arriverà ad  una successiva evoluzione: concepita l’idea che la musica possa descrivere un ambiente, e parallelamente progredita la consapevolezza che la musica descriva la psiche del personaggio, ne esce una compenetrazione di elementi, che arriverà a stabilire un contatto, più o meno presente di opera in opera, tra la situazione interiore e l’ambiente naturale circostante (anche qui un esempio fra tutti: il finale III dell’ Otello di Rossini, “notte per me funesta”).  

Non possiamo in questo contesto fare a meno di sottolineare il valore patriottico dell’opera. Il rapporto tra Verdi e il patriottismo è sempre stata un’argomentazione dibattuta, ma indubbia. 
Quando poi il compositore ne fosse consapevole o addirittura lo alimentasse, è materia di confronto tra gli studiosi. In primo luogo è bene aprire una parentesi sulla situazione socio-politica italiana della metà dell’800: l’opera vede la luce nel 1846, due anni prima dei celebri moti rivoluzionari che infuocarono l’intera Europa e sei anni prima dell’elezione alla Presidenza del Consiglio di Camillo Benso, il famoso conte di Cavour. Le pressioni dei Savoia (in quel momento rappresentati da Vittorio Emanuele II, allora solo re delle due Sicilie) per l’espansione del Regno sono accolte sempre con maggiore veemenza dai territori fino ad allora sottoposti al dominio austriaco; si sta preparando il terreno per le guerre di indipendenza italiane, e il patriottismo permea la società in ogni suo ceto. 
Ed è proprio in questo contesto che Verdi scrive e presenta le sue più importanti opere, nelle quali vengono letti ed interpretati elementi conformi alla causa patriottica. A partire dalle famose scritte “W Verdi”, acronimo di W Vittorio Emanuele Re Di Italia, al “prendere in prestito” versi o interi brani, riconvertiti alla causa: è il caso di Nabucco, dove
l’apertura del secondo atto, con il celebre coro “Va Pensiero”, cantato dagli schiavi ebrei deportati in Babilonia, diventa simbolo degli “italiani”, costretti sotto un dominio estero, o di Ernani, nel quale il coro “Si ridesti il leon di 
Castiglia” assume un significato completamente diverso, preannunciando le guerre e le sommosse che da li a poco sarebbero scaturite. Attila non è da meno, e negli ideali di difesa della patria dal nemico unno invasore, i cuori dei patrioti si accendevano, facendo di Verdi un, seppur inconsapevole, ispiratore.